martedì 6 dicembre 2011

Intervento del Prof. Stefano Zamagni a Taranto


In occasione della “Presentazione del ‘Libro bianco del Terzo settore’
tenuta presso la Camera di Commercio di Taranto - in collaborazione con il
Centro di Cultura “G. Lazzati” dell’Università Cattolica – Taranto
  (Lo scopo unico della trascrizione è quello di fermare il contenuto di quanto detto, per la memoria e per eventuali possibili riflessioni. Perciò si possono notare i pregi costituiti dalla vivacità dell’espressione orale ma, per i puristi, anche qualche imprecisione formale) Trascrizione integrale a cura di Francesco Carlucci

Stefano Zamagni
curatore del ‘Libro bianco del Terzo settore’

Sono molto lieto di essere qui. In questa città sono venuto per la prima volta 48 anni fa. Capite quanto sono vecchio. Mi ero appena laureato alla Cattolica di Milano quando il mio professore Francesco Vito, economista, mi disse: ‘vai giù a vedere il triangolo industriale del Sud: Bari, Brindisi, Taranto’ e poi fai un’analisi comparativa con il triangolo industriale del Nord: Torino, Milano, Genova. Allora si parlava ancora di poli industriali, di triangoli industriali. Dopo sono tornato altre volte.
Sono lieto di aver rivisto il vostro arcivescovo, mons. Papa, con il quale ho collaborato per alcuni anni al Comitato Tecnico Scientifico delle settimane Sociali dei cattolici. Ho avuto l’onore di essere invitato alcuni anni fa al ‘Progetto Arcobaleno’. Questo per ribadire la mia gioia di essere qua con voi.
 Esprimo dunque gratitudine al presidente Amalfitano, che è stato il primo a rivolgermi l’invito. A lui mi lega un’antica amicizia. Saluto il presidente della Camera di Commercio. Questa struttura deve essere abbastanza recente, mi complimento per la bellezza e per la espansività che essa esprime.
Detto questo, una parola di precisazione. Questo Libro bianco è frutto del lavoro dell’Agenzia per il Terzo Settore che ha sede a Milano e che io presiedo dal 2007. Il mandato è quinquennale, dunque al termine di questo anno la seconda consigliatura giunge al termine. E come è prassi consolidata, quando volge al termine sorge il Libro bianco nel quale sono indicate non tanto le realizzazioni fatte, ma le cose da fare.
Non intendo qui sintetizzare il volume. Preferisco invece raccogliere la stimolazione che mi è venuta ascoltando gli interventi che mi hanno preceduto e alcuni dialoghi avvenuti nei giorni passati con alcuni dei presenti, in particolare Vincenzo Mercinelli, che coordina l’Accademia Mediterranea di Economia Civile.
 Questa manifesta alcune tra le peculiarità del Mezzogiorno d’Italia, questa parte d’Italia cui voi appartenete.
Voi sapete che l’espressione ‘Terzo Settore’ non è italiana? E’ di derivazione francese. Troisiemme Secteur. Così come l’espressione ‘no profit’, non è italiana, ma è anglosassone. Perché questo? Perché questa sottolineatura?
Perché l’espressione Terzo Settore è una espressione riduzionista rispetto alla nostra realtà italiana. Come sempre capita quando una moda culturale, addirittura lessicale, prende dominanza, alla fine si è costretti ad usarla. E’ una forma di colonialismo. E’ sempre esistito quindi non ci dobbiamo meravigliare. Però è bene sapere cosa nasconde questo riduzionismo. Dobbiamo conoscere che ci sono due paradigmi di Terzo Settore. L’uno è il cosiddetto Terzo Settore redistributivo, l’altro è il Terzo Settore produttivo.
 Il primo (Terzo Settore redistributivo) che ha avuto la sua origine in terra anglosassone, in parte anche francese ma soprattutto l’Inghilterra, poi Stati Uniti, Canada e altri: concepiscono i soggetti della società civile, che appunto chiamano terzo settore, come dei soggetti che ridistribuiscono un reddito, diciamo ricchezza in senso lato, che qualcun altro ha prodotto. Quindi la funzione di questi soggetti, secondo il primo paradigma anglosassone, è quello di chiedere, a chi si occupa di volontariato, di fondazioni e di organizzazioni non governative, di ridistribuire. Con una mano si prende e con l’altra si ridistribuisce. Questo modello è associato all’esperienza anglosassone della filantropia.
La filantropia non ha mai attecchito in Italia. Chi è il filantropo? Il filantropo è un soggetto, un imprenditore molto bravo, che è riuscito a fare tanto profitto e decide di sua spontanea volontà, senza essere obbligato, di destinare una parte dei profitti che ha accumulato dedicandoli a certe categorie o tipologie di società.
Quando Bill Gate, quattro anni fa, staccando un assegno se non vado errato di 20 miliardi di dollari, ha istituito la Fondazione che reca il proprio nome e quello della moglie, e ha creato lo statuto. Dice: ‘io do questi soldi perché questa Fondazione deve perseguire questi scopi, uno, due tre. Deve avere la seguente governance, cioè regole di governo, il presidente deve essere nominato in un modo, ecc. ecc.’ Questa è la quintessenza del modello filantropico. Non c’è assolutamente nulla di male in questo.
Quello che voglio evidenziare è che non è questa la nostra tradizione italiana. Ma da noi è nato, perché il mondo del Terzo settore, che sia ben chiaro, è nato in Italia ed è nato nel 1300.
Dicevo pocanzi in un’altra stanza, se noi italiani fossimo meno fessi di quanto siamo, sapremmo valorizzare le nostre radici. Invece dobbiamo sempre andare a rimorchio degli altri. E se voi chiedete a qualcuno, secondo te quando è nato storicamente? E vi rispondono ‘è nato in Inghilterra nel Settecento’ sono sciocchezze!
 Perché il Terzo settore è nato in Toscana e in Umbria e poi da lì si è sparso, già dal 1300 quando nascono le confraternite. Le misericordie quando sono nate? Le misericordie sono nate alla fine del Duecento. Quando nascono i primi ospedali? Chi ha inventato l’ospedale moderno? Noi italiani! Gli altri popoli, in quell’epoca, quando uno si ammalava lo facevano morire. Noi invece li andavamo a raccogliere, perché si pensava, e io dico giustamente, che non si può fare morire una persona come si può fare morire un animale. Giusto? La stessa cosa è per le scuole e per l’università. Chi ha finanziato le università per i primi quattro secoli?
Con questo voglio dire che la tradizione italiana considerava il Terzo settore produttivo. Cioè produttore di ricchezza, di reddito e a volte di occupazione. Questo non importa, ma diciamo produttore di valore aggiunto. Dentro il valore aggiunto c’è chi sta peggio. Questa concezione ha conosciuto momenti di alti e bassi come sempre capita ma, per farla breve, a partire dal secondo dopoguerra, è accaduto un meccanismo tipico di schiacciamento con la realizzazione di un modello di per sé validissimo, il modello del Welfare State, dove la parola chiave è State, non welfare. State vuol dire Stato. Si è cominciato a dire: al benessere dei portatori di bisogni (bisogno di tutti i tipi, bambini, anziani, malati, portatori di handicap..) ci deve pensare lo Stato. Lo Stato deve farsi carico dei portatori di bisogni delle diverse tipologie degli stessi, e lo Stato finanzia queste iniziative con la fiscalità generale.
Questo ha avuto l’effetto appena ricordato, quello di provocare uno schiacciamento. Cioè tutte quelle forme di associazioni che fino alla legge Crispi del 1891 si chiamavano Opere pie, scompaiono e i nostri soggetti della società civile finiscono col seguire il modello anglosassone; quindi diventano anche loro Terzo settore redistributivo.
Nel territorio italiano, come voi sapete, il modello fondazionale non ha mai attecchito. Perché? Perché per avere le fondazioni ci vogliono i fondi. La parola fondazione evoca la parola fondo. Ci deve essere qualcuno che sgancia e mette lì un certo ammontare con cui finanziare le attività. Ma siccome l’Italia non è un Paese che ha la grande impresa, (ne ha qualcuna, ma sono poche) capiamo perché nella nostra situazione il modello fondazionale  non ha mai attecchito.
Ecco perchè le risorse per finanziare i soggetti di Terzo settore sono fornite, (fino all’altro ieri), dalla Pubblica Amministrazione: Stato, Regioni, Province, Comuni. Ora, fino a che queste risorse c’erano, non si sono avvertiti grossi problemi.
La stretta è cominciata nel 2008 per le ragioni a tutti note. La crisi tuttora in atto da un lato, ma soprattutto la necessità di azzerare tendenzialmente il debito pubblico di cui tutti parlano, hanno portato a questo stato di cose: i soggetti del Terzo settore abituati, per circa 35-40 anni dal dopoguerra, ad ottenere le risorse di cui hanno bisogno per svolgere la loro attività, dagli enti pubblici e non tanto dai filantropi privati, oggi si trovano in difficoltà enormi. Anche perché non solo non ottengono più risorse aggiuntive, ma neppure ottengono il pagamento dei debiti che la pubblica amministrazione locale ha nei confronti di questi soggetti, soprattutto le cooperative sociali.
 Noi conosciamo, come Agenzia del Terzo Settore, una miriade di cooperative sociali che vantano crediti nei confronti della Pubblica Amministrazione. Ma non da un mese o due. Dai diciotto mesi in su. Ora voi capite, una cooperativa sociale che non può accedere al mercato dei capitali per finanziarsi, come può continuare se non li ottiene dalla P.A.? E allora capite che oggi il rischio è veramente notevole. E’ quello di strangolare questi soggetti abituati per lungo tempo all’inverso, con la campana protettrice della Pubblica Amministrazione. Il sindaco dice: ‘guarda, tu sei presidente di quella cooperativa sociale, tu sei presidente di quella impresa sociale ecc. Facciamo una convenzione. Io ti do i soldi tu mi gestisci l’asilo nido. Oppure mi gestisci la casa di cura e così via’. Questo fino a pochi anni fa ha funzionato. Ed è questo il motivo per cui i nostri soggetti di Terzo settore sono diventati degli ottimi esecutori di ordini. L’ente pubblico decide, perché i soldi sono suoi, altrimenti affida la gestione di quell’asilo a qualcun altro.
 Questa situazione ha avuto un duplice effetto dannoso. Da un lato ha deresponsabilizzato la società civile. L’argomento era: perché dovrei preoccuparmi io della solidarietà? Lo diremo al sindaco o alla Regione a secondo dei casi. E loro se ne prenderanno cura. Noi abbiamo assolto ai nostri doveri pagando le tasse.. Poi non si pagano neanche quelle, ma quello è un altro discorso, è un’aggravante mettiamola così: un’aggravante.
Concettualmente l’idea che era passata era che il cittadino assolve ai propri doveri pagando le tasse con le quali lo Stato o l’ente pubblico provvede ai bisogni. E’ la prima implicazione del modello che per l’Italia è cominciato nel dopoguerra. Non c‘era mai stato nei secoli precedenti. Questo è il punto: è stato come una droga. Deresponsabilizzazione da parte dei cittadini e per quanto riguarda le organizzazioni del terzo settore un’atteggiamento passivo.
Cosa vuol dire passivo? Le decisioni venivano prese dall’Ente Pubblico il quale fissava le modalità, le gare d’appalto al massimo ribasso e tutte queste diavolerie. E chi otteneva la convenzione e vinceva la gara doveva eseguire quanto altri avevano stabilito.
Negli ultimi anni la Pubblica Amministrazione non ha più quelle risorse, e adesso capite perché si assiste ad un risveglio. Non tutti ancora, ma molti in Italia stanno aprendo gli occhi e dicono: ‘dobbiamo tornare al nostro modello cominciato nel 1200 e che è andato avanti fino alla metà del Novecento’. Cioè il modello di Terzo settore produttivo che produce, non che ridistribuisce quanto altri ha fatto, ma che produce.
E’ evidente che questo discorso vale in generale per tutto il Terzo Settore italiano. Quando focalizziamo l’attenzione sul Mezzogiorno d’Italia, c’è un’ulteriore aggravante: al Nord e al Centro Nord ma soprattutto al Nord, a parte le ragioni di struttura economica a tutti note, c’è tanta la presenza di imprese, non pubbliche come qua, ma private e di un certo rilievo. I soggetti di Terzo settore sono sempre riusciti a stabilire una sorta di alleanza con il mondo del for profit, cioè il mondo privato. Volete chiamarlo delle imprese di tipo capitalistico? Non importa, quello che volete.
Quindi è accaduto che, nel momento in cui si è verificata la stretta attuale, questi soggetti in qualche modo riescono a cavarsela perché, chiuso il rubinetto della Pubblica Amministrazione, si sta aprendo il rubinetto dell’impresa privata, cioè l’impresa for profit. Nel Mezzogiorno invece, siccome le imprese per le note ragioni sono come sono, accade che i soggetti di Terzo Settore non sanno a che santo votarsi. Questo è il problema.
Faccio alcuni esempi: pensate all’Anpas, le pubbliche assistenze, pensate alle Croci. In Emilia Romagna, io vivo a Bologna, ce ne sono di tutti i colori. Croce bianca, Croce gialla, Croce verde ecc... Croce Rossa è a parte, perché è un ente pubblico. Un errore tragico risalente ad alcuni anni fa: chi ha promosso quella legge adesso dovrebbe battersi il petto tre volte all’ora… Ma non dobbiamo parlare di questo.
Questi enti sono soggetti che, se incrociassero le braccia (perché sono volontariato eh! Le croci sono associazioni di volontariato, non sono impiegati quelli che guidano e che vanno a raccogliere gli ammalati) immaginate voi, a  mò di esercizio intellettuale, cosa succederebbe se domani questi incrociassero le braccia. Poiché non hanno un contratto, non sono obbligati, il fascio di mortalità aumenterebbe spaventosamente nel nostro paese, e le Asl potremmo chiuderle, perché non avrebbero più chi può portare all’ospedale o al pronto soccorso il malcapitato. Eppure nessuno ragiona in questi termini.
 Quando voi vedete sfrecciare le ambulanze, dovete sapere che lì ci sono dei volontari, gente che non è pagata: quando va bene ottiene il rimborso spese, ma quando va bene, perché a volte non ottengono neanche più quello dalla Pubblica Amministrazione. Non gli danno neppure i soldi per pagare la benzina. Allora voi capite che questo è un esempio di volontariato produttivo. E’ produttivo di valore, come quelli che portano l’assistenza sanitaria a casa, a domicilio e così via.
Non parliamo poi delle cooperative sociali. Se non sono produttive quelle! Voi sapete che la legge sulla cooperativa sociale, sulle imprese  sociali ce l’ha solo l’Italia? Gli altri paesi europei non ce l’hanno. E’ la ragione per la quale a loro le cose andranno molto peggio che da noi. Però non dobbiamo essere egoisti e dire peggio per loro, dobbiamo aiutarli a venire qua a imparare da noi. Fare un sano esercizio di umiltà, dopo i decenni in cui ci prendevano in giro.
Questi enti sono produttivi, e come! La stessa cosa vale per le cosiddette APS, che vuol dire Associazioni di Promozione Sociale. Le Acli sono una APS. L’Arci è un’Aps, l’Ancescao è una Aps. Ancescao, cioè l’Associazione Nazionale dei Centri per gli anziani che sono ancora autosufficienti, ma che evidentemente hanno bisogno di determinate attenzioni, servizi e così via.
Il punto è che nel caso del Mezzogiorno, non ci sono quelle strutture in parallelo: pensate in Emilia Romagna ad imprese come la Barilla di Parma o alla Ducati di Bologna, la GB di Bologna, che è un’impresa leader mondiale, fanno macchine diaboliche che sono perfettissime. Pensate ancora alle imprese come ad esempio la Sac di Imola. E’ chiaro che queste sono imprese private che hanno in questi ultimissimi anni stabilito un’alleanza, poi dirò cosa vuol dire alleanza, con i soggetti del Terzo Settore.
 Il problema del Sud è che questo non c’è stato, pensate alle Fondazioni bancarie: l’Emilia Romagna ha 19 Fondazioni bancarie. Diciannove. Voi sapete cosa sono le fondazioni bancarie? Al Sud non ne avete, a parte due o tre con poca roba rispetto ai bisogni che ci sono in questa terra dove vive circa il 36-37% dell’intera popolazione nazionale. E’ ovvio che una regione come l’Emilia Romagna in cui ci sono 19 fondazioni bancarie, ognuna delle quali riversa sul sociale, diciamo così, ci mette in media due milioni all’anno per i propri territori.  Ci sono imprese che prendendo sul serio il discorso Corporate Social Responsability, cioè della responsabilità sociale dell’impresa, si sentono invogliate e coinvolte in questa forma di progettazione. Ecco allora il punto che occorre: il Sud è stato doppiamente danneggiato. La prima ragione vale per tutto il terzo settore italiano. La seconda ragione è quella di cui ho fatto appena parola.
Bisogna intervenire. Non si può continuare così, perché anche il tentativo disperato che qualcuno fa di tirare la giacchetta al sindaco o all’assessore di turno è destinato all’insuccesso. A questo punto non hanno i soldi neanche per piangere, è evidente che è inutile pretendere risorse che comunque non possono dare, se non in misura limitata.
Quando uno arriva a capire questo capisce perché siamo alla vigilia di un grande balzo o di una grande svolta. E la svolta è esattamente questa: faccio adesso una congettura, cioè una previsione sul futuro, vedremo se ci azzecchiamo.
La mia previsione è che nei prossimi anni il Terzo settore conoscerà un nuovo rinascimento, un nuovo risorgimento. Ma non perché lo dica io, lo dicono i fatti, lo dice la situazione.  Perché non è possibile.
Vedrete voi, quando le aziende sanitarie locali non riusciranno neppure a garantire l’IDEA, (l’idea sono i livelli essenziali di assistenza). Vedrete allora se avremo sul serio il federalismo fiscale, adesso sono stati approvati gli ultimi otto decreti delegati e si è in attesa di due altre deleghe. Poi è chiaro può sempre succedere di tutto, ma se la tendenza sarà di andare verso la presa in considerazione del federalismo fiscale del Settentrione, ne vedremo delle belle. Noi italiani abbiamo questa bella virtù, siamo pragmatici, nel senso che ci piangiamo addosso. Poi quando vediamo che siamo sull’orlo del precipizio smettiamo di piangere e ci rimbocchiamo le maniche. Che succederà?

Adesso, la seconda parte della mia presentazione è questa. Che cosa bisogna fare per accelerare questa svolta, visto che la situazione è seria più di quanto non sembri? Sapete in questi anni di crisi cosa ha funzionato come tampone, come pezza sul tessuto slabbrato? Quelle forme di carità che prendono nomi di Caritas diocesana.
Io adesso non so qui, ma io vedo nella mia Bologna. Se voi andate a mezzogiorno alla sede della Caritas bolognese, alla sede delle mense della carità dei francescani, voi vedete delle file lunghe da qui fino a lì. Gente che non ha i vestiti stracciati: se voi li vedete per la strada dite ‘stanno bene'. Eppure a mezzogiorno e alla sera, alle sette fanno la fila per avere un piatto di minestra. A Bologna eh?! Io non so qui. Vuol dire che fino adesso queste strutture in prevalenza legate alla Chiesa, al movimento cattolico italiano hanno tamponato. Voi capite che non si può continuare così. Perché anche le varie diocesi cominciano a denunciare il calo delle risorse. Per un certo numero di mesi o di anni si può utilizzare le riserve, ma poi finiscono. D’altra parte il modello della Caritas è di tipo distributivo oltre ad impegnarsi nella funzione educativa.
Bisogna mettersi in testa che dobbiamo fare i soldi: dobbiamo pensare al volontariato, a cooperative sociali, a imprese sociali ecc., come soggetti che producono. Allora, la domanda è: cosa bisogna fare per accelerare questo processo?
Bisogna agire su due piani.
Il primo è quello che riguarda l’assetto istituzionale, legislativo, istituzionale. Su questo, non tocca a me dare giudizi né dare condanne. Qualcun altro se mai. Ma il nostro ceto politico è massimamente responsabile. Tutti. Ho detto tutti, eh?!

 Perché negli ultimi tre, quattro anni non hanno fatto quello che potevano fare, perché questa è una questione di Parlamento, perché le leggi le fa il Parlamento. Io sto parlando di assetto istituzionale, a livello nazionale. Quando vedete un politico nazionale, dovete dirgli: perché non hai fatto questo che potevi fare? Eh, dice, non c’erano risorse. Dovete rispondergli: bugia! Perché per fare le leggi nuove non c’è bisogno di risorse. Anzi, sono un risparmio. E’ che non lo si vuole fare. Perché al nostro ceto politico interessa il terzo settore redistributivo. Non facciamo fatica capirlo! Lo capiscono anche i miei quattro nipotini, persino loro lo capiscono. E’ ovvio. ‘Redistributivo’ vuol dire che qualcuno deve dare e poi dopo tu spendi. E chi ti dà, ovviamente, poi ti fa fare qualcosa. Questa è la realtà che va denunciata, perché è una vergogna, molti sanno queste cose e non lo dicono, perché l’ipocrisia è quella che ci ha rovinato negli ultimi anni. Ipocrisia è una parola greca, vuol dire mettere il veto. Bisogna togliere il veto.
Esempio: Libro I, titolo II del Codice Civile. E’ quel grumo di articoli che riguardano il Terzo settore. Lo sapete voi che quel Libro I titolo II, una manciata di articoli del Codice Civile, è ancora quello del 1942, quando il Codice Civile venne approvato? E venne approvato in epoca fascista. Quindi quell’impianto è ancora un impianto fascista. Sarà perché agli italiani piace il fascismo, a me personalmente non è mai piaciuto, mi piace la democrazia e la libertà. Però non so cosa dire, perché i parlamentari hanno cambiato in 70 anni il libro II, il libro III, IV e V del Codice Civile, ma hanno lasciato intatto il Libro I.
 Il Libro I ha ancora un impianto filosofico, antropologico basato sul principio concessorio. Concessorio vuol dire che è l’ente pubblico o il prefetto in certi casi che ti consente di fare impresa. Noi dobbiamo passare dal regime concessorio al regime del riconoscimento. L’ente pubblico deve riconoscere, non concedere. Tu Stato non concedi un bel niente, perché se tu vuoi concedere vuol dire che sei uno Stato Etico, come lo chiamava Hegel, cioè sei uno Stato dittatoriale. E noi vogliamo la libertà: quindi lo Stato non è la sorgente dell’etica.
So che a qualcuno queste parole danno fastidio, perché vorrebbero che fosse lo Stato a decretare cosa è il bene e cosa è il male, il giusto e l’ingiusto. Ma lo Stato appartiene all’ordine dei mezzi, non all’ordine dei fini. Lo Stato è uno strumento, non è il fine. Quindi, tu Stato non concedi un bel niente: tu devi riconoscere.
Se a Taranto c’è un gruppo di persone che ha dato vita ad una certa associazione, tu devi riconoscere. Invece adesso, provate voi a fare una fondazione, un’associazione; c’è bisogno di una registrazione, poi c’è un funzionario che gli gira storto e ti dice: no, non va bene lo statuto, devi rifarlo. Lo sapete che per fare un’associazione ci vuole più tempo che fare una impresa? Ecco che bisogna cambiare.
Dovete sapere che c’è un articolato di proposte, di iniziative, nel Libro bianco. Non è che uno deve impiegare dieci anni; c’è una commissione di cui io stesso ho fatto parte alcuni anni fa, che ha redatto tutta l’alternativa. Ed è una bella cosa. Sono passati tre anni e mezzo, non se ne parla. Tutte le insistenze nostre, nostre dico come Agenzia: ‘per favore, vi supplichiamo’. Ormai non ci vado più a fare le audizioni, si va a perder tempo: mi chiamano per l’audizione, mi dicono ‘prepara tu una proposta’; discutiamo, lavoriamo, la prepariamo, poi non si fa niente.
Capite che fin quando non si cambiano quegli articoli, ci sarà sempre qualcuno che potrebbe denunciare questo o quell’altro per non aver seguito i canoni. Perchè la Costituzione è come il quadro generale, ma per l’operatività quotidiana contano gli articoli del Codice Civile. Alla Costituzione si deve fare riferimento, ma gli operatori in carne ed ossa devono vedersela col Codice Civile.
 Il paradosso è che su quella proposta di modifica del Libro I, vi era l’accordo bipartisan di maggioranza e opposizione. Sono tutti d’accordo, e si capisce perché, vorrei uno che obiettasse. Si vergognerebbe. Eppure, nonostante ci sia l’accordo, la modifica non va.

Una seconda modifica, ancora più facile: voi sapete che nel 2008 è entrata in vigore la Legge sull’impresa sociale. E’ una bellissima legge.
Ho detto prima che in Europa siamo l’unico Paese ad avere promulgato la legge sull’impresa sociale. In Inghilterra non c’è, non ce l’ha la Francia, non ce l’ha la Germania. Allora vuol dire siamo bravi? E no! Perché il demonio si nasconde nei particolari. Quale è il particolare? Se voi andate a prendere una legge dei decreti attuativi, all’impresa sociale (che è una impresa che non ha fine lucrativo), non vengono estesi i benefici fiscali di cui possono godere le cooperative sociali e le associazioni di volontariato, le cosiddette Onlus.
Il decreto legislativo delle Onlus, il 460 del ’97, che so quasi a memoria (per ovvie ragioni, ho dovuto farlo io) dice che secondo certi canoni, l’Onlus non paga le tasse, ha dei benefici sull’Iva ecc. Ora, la legge sull’impresa sociale non le riconosce le stesse cose. Adesso capite perché non possono nascere le imprese sociali, e le Camere di Commercio lo sanno.
Voi direte: ma ne risultano molte. State attenti ai trucchi statistici, perché le cooperative sociali possono chiedere l’iscrizione al registro delle imprese sociali. Ma perché lo fanno? Perché in quanto cooperative sociali già beneficiano degli sgravi fiscali e quindi acquisiscono anche i benefici previsti per l’impresa sociale.
Ma se io domani assieme ad alcuni di voi voglio fare un’impresa sociale a Taranto, di fatto non la possiamo fare, perché dobbiamo pagare tutte le tasse come la Fiat, o come le grandi imprese o come le banche. Penso che ci sia un po’ di differenza, giusto? Ecco allora, vedete che è veramente diabolico: vi faccio la legge bella, però la rendo inapplicabile.
L’ultima volta in cui mi sono arrabbiato è stato il 2 settembre scorso: le Acli nazionali dovevano fare la loro assemblea, quella che fanno tutti gli anni, e avevano invitato quella mattina a parlare me e Tremonti e altri. Allora gli ho detto davanti a mille persone: caro ministro Tremonti, perché non fai una leggina di un articolo, due righe, in cui si dice che alle imprese sociali, ex legge 2008, vengono estesi, laddove applicabili, ovviamente, i benefici fiscali delle Onlus? Dico, non stare  a dirmi (tra colleghi si dà del tu) che avresti timore di perdere il gettito fiscale, eh?! Perché se dici questo ti boccio subito, perché sei un po’ ignorantino in economia. Lui è un fiscalista, un tributarista, un giurista, non è un economista. Di economia non sa niente, sarà molto bravo nel resto, questo lo dicono tutti e tutti lo sanno. Interrogatelo, non su questioni economiche, su una argomentazione di diritto, non so.. Uno mi metterebbe in buca se portasse il discorso sul filo del diritto.
Con le imprese sociali, siccome non esistono, non avresti una perdita di getto, anzi, avresti un aumento. Lui mi disse: lasciamici pensare, è una buona idea. E’ passato un mese e mezzo, ancora niente. Può darsi che lo inserisca adesso nel cosiddetto decreto sviluppo, speriamo!
Noi come Agenzia abbiamo fatto un esercizio di simulazione, che mostra che, se ci fosse questa leggina di due righe, nei prossimi sei/otto mesi in Italia, soprattutto al Sud, potrebbero nascere 50-60 mila imprese sociali nuove. E 50-60 mila imprese sociali nuove, mettete voi un  moltiplicatore occupazionale di 7-8. Un’impresa sociale bisogna che faccia lavorare almeno sette persone, moltiplicando otterrete subito 600-650 mila posti di lavoro, senza perdita di getto. Perché non si fa?
 Quando io parlo di modifica dell’impianto legislativo istituzionale sto parlando di cose concrete. Ho voluto fare solo questi due esempi, per farvi capire cosa vuol dire.
Perché vedete, noi italiani siamo buffi; abbiamo cambiato dieci anni fa la Costituzione introducendo gli articoli 118-119 che introducono il principio di sussidiarietà. Nessun’altra Costituzione ha il principio di sussidiarietà. Quindi noi siamo sempre i primi, ma qualche volta siamo non funzionali. Abbiamo  introdotto il principio di sussidiarietà ma non lo facciamo funzionare perché non vogliamo adeguare il sistema fiscale tributario a quei principi, quindi in teoria ce l’abbiamo, in pratica non funziona.

Però non basta, bisogna agire su quell’altro piano per accelerare. E quell’altro piano è l’alleanza. Bisogna che i soggetti di Terzo settore facciano un’alleanza strategica con gli enti locali e con il mondo delle imprese private.
 In altre parole, l’obiettivo che dobbiamo perseguire è di realizzare quella versione del principio di sussidiarietà che si chiama sussidiarietà circolare.
Com’è che nessuno ce l’ha mai detto? Quando si parla di sussidiarietà tutti fanno riferimento a quella verticale e a quella orizzontale. Benissimo. Però la sussidiarietà verticale non è sussidiarietà, si chiama devoluzione, si chiama decentramento amministrativo: lo Stato decentralizza alla Regione, la Regione ai Comuni; quella non è  sussidiarietà, quello è decentramento, che va benissimo e ci vuole. La sussidiarietà orizzontale invece vuol dire quello che tutti sanno: ci sono dei cittadini che si sono organizzati in una forma o nell’altra per soddisfare determinate categorie di bisogni ed è bene lasciar fare. Questa è la sussidiarietà orizzontale di cui parla l’art. 118 e 119 della nuova Carta costituzionale italiana.
Mi direte voi: e allora perché abbiamo bisogno della sussidiarietà circolare? La risposta è che la sussidiarietà orizzontale da sola non garantisce l’universalità.
Ecco perché il 4 ottobre scorso, festa di San Petronio il patrono di Bologna, il mio cardinale fa l’omelia e lancia il principio di sussidiarietà e lo spiega, ma non ha usato l’aggettivo circolare. Apriti cielo! Il giorno dopo, ancora oggi, su tutti i giornali: ecco, ‘il cardinale vuole eliminare i diritti di cittadinanza, non è più a favore dell’universalismo…’ e così via. Poi qualcuno si stufa e glie ne canta per le rime, perché lì c’era veramente della disonestà intellettuale, perché è vero che non ha usato l’aggettivo circolare, però il concetto era quello della sussidiarietà circolare.
Perché, vedete, la sussidiarietà orizzontale da sola non garantisce l’universalismo. Sapete cosa è l’universalismo? A tutti i cittadini, indipendentemente da come sono fatti  in faccia, devono essere riconosciuti determinati servizi di welfare, sanità, assistenza, la scuola ecc.
Con la sussidiarietà orizzontale, invece, voi fate dipendere l’ottenimento di quei servizi dall’adesione della persona a quel gruppo, a quella associazione. E se io non voglio essere socio di quella, delle Acli o dell’Arci? Non puoi obbligarmi, ma se non sono socio non ho accesso ai servizi. Questo vuol dire che non si garantisce l’universalismo. Questi sono problemi di sanità. Qual è il senso della riforma che abbiamo fatto negli anni Settanta? Quello di dire che chiunque, addirittura indipendentemente se cittadino italiano o no, se va al Pronto Soccorso, se non lo ammazzano prima, dopo lo fanno star bene.  Lo dico perché qua c’è il direttore della Asl.
E allora il punto è esattamente questo: la risposta è la sussidiarietà circolare. Perché è quel modello di sussidiarietà che fa stare assieme la libertà di scelta, come la sussidiarietà orizzontale, però garantisce l’universalismo. Nei confronti della sussidiarietà circolare, le obiezioni che di tanto in tanto si odono da parte di certe parti politiche, vengono messe a tacere. Ovviamente questi giocano sugli equivoci, siccome la gente è ignorante e non sa, e siccome è vero che la sussidiarietà orizzontale non garantisce l’universalismo, allora la conclusione è: no, dobbiamo riproporre il modello statalista. O il neo statalismo.
Allora ecco l’alleanza cui facevo riferimento: il Terzo settore in questo momento storico ha messo a punto una strategia, quella di iniziare un processo di alleanza che veda alleati enti locali o enti pubblici da un lato, e  dall’altro il mondo della business community, cioè il mondo dell’impresa in senso ampio. Terzo vertice del triangolo è il mondo della società civile organizzata, cioè il mondo del cosiddetto Terzo settore. Questi tre vertici devono interagire tra di loro. Ecco perché si chiama circolare. Sulla base di un principio di mutuo rispetto e della parità dei diritti o, ovviamente, dei doveri.
Ciò che infastidisce un’associazione di volontariato, un partito sociale, a volte fondazioni di comunità, è che uno partecipi ai tavoli per essere consultato: Dimmi tu cosa pensi. Poi io sono l’assessore decido tutto io. Ma vogliamo scherzare? Dice: ma io sono stato eletto. Ah, tu sei stato eletto, ma tu sai cosa è la democrazia o no?  Tu sei stato eletto per perseguire il bene comune, non per fare quello che la tua testa dice. Perché se tu scopri che la tua testa, limitata come quella di tutti, non ti consente di perseguire il bene comune, ti devi mettere attorno al tavolo, e lo facciamo triangolare a scanso di equivoci, in cui agli altri lati ci sono gli altri. Ognuno mantiene la propria identità, e tu, ente pubblico, hai una funzione che è quella di garantire l’universalismo. Tu però non hai più le risorse, allora facciamo entrare in gioco il vertice della business community. Ma nel mondo delle imprese ce ne sarà qualcuno egoista che andrà all’inferno, per forza. Dove lo vuoi mandare un egoista? Però la gran parte degli imprenditori non sono egoisti.
Domanda, allora, perché non sganciano di più? Ve lo dico io, perché io parlo con loro, continuamente. Mi dicono: noi daremmo e daremmo molto di più, però vogliamo contare anche noi, non che arriva un qualche burocrate e ci dice: noi decidiamo i servizi come farli, dove metterli, e poi tu imprenditore dai 200 mila euro. Allora ti arrangi. Bisogna che tutti e tre gli interpreti facciano un passo avanti nella direzione dell’alleanza, e allora vedrete che i soldi vengono fuori.
 Voi direte: come fai? Io vi porto l’esempio, caso per caso, in cui imprenditori si sono messi insieme e hanno realizzato il cosiddetto welfare territoriale. Ho detto territoriale, non aziendale. L’aziendale è la sussidiarietà orizzontale.
 Voi impossessatevi di questi termini, così, quando qualcuno fa il fesso rispondete per le rime e lo zittite, perché non è ammesso che uno, essendo ignorante, cioè non conoscendo, voglia dettare leggi. Se uno è ignorante bisogna istruirlo e aiutarlo.
In una recente indagine pubblicata da Aspra Ricerche un paio di mesi fa, hanno preso un campione di imprese: il 70% di questo campione, formato da imprese private ha detto, noi ci impegniamo a starci se ci coinvolgessero nella forma di cui ho detto brevemente. Non possono pretendere di venire da noi a chiedere l’obolo e poi loro decidono, perché così non lo facciamo. Ecco cosa è la sussidiarietà circolare.
Chi può essere il soggetto dei tre che mette in moto? Nella circolare ci vuole uno che metta in moto la macchinetta, come le macchine di una volta che bisognava metterle in moto dal davanti. Questo soggetto è il Terzo settore, perché il Terzo settore ha la conoscenza, ha il know how, sa come fare e soprattutto ha la reputazione per farlo. Quindi  il terzo settore deve prendere per la giacchetta l’assessore, in senso metaforico, e il presidente degli industriali, della Camera di Commercio e dire: mettiamoci qua. Mettiamo prima la regola che nessuno può dire ‘io comando su di te’ ;  parità di diritti e di doveri, principio di responsabilità, e definiamo determinati obiettivi: gli asili nido, gli anziani non autosufficienti.. Ogni territorio ha le sue necessità, è chiaro che le vostre necessità sono diverse da quelle di Bologna o di Milano ecc. perché i bisogni dipendo dai settori e solo voi conoscete i bisogni del vostro territorio.
Vi mettete e organizzate. Vi faccio solo un esempio: a Bologna c’è l’hospice, il primo d’Italia. Sapete cosa è hospice? Una specie di ospedale dove la gente va a morire, dove mettono i malati terminali, soprattutto gli oncologici, i macrologici; ebbene l’hospice vicino a Bologna, che è il più bello e il più funzionale a livello europeo, il disegno sapete chi l’ha fatto? L’architetto Renzo Piano, l’ha fatto gratis, per zero euro. Vedete lui è un imprenditore, ha un grande studio. Se non è un imprenditore lui! Però, coinvolto opportunamente dice, io ho fatto il disegno, seguo i lavori, é a Bentivoglio vicino a Bologna, è uno spettacolo.
L’idea era che i morenti devono morire bene, non male come i cani che si mettono nei sottoscala. E allora serve la bellezza, cioè la filocalia, che vuol dire l’amore per la bellezza, deve trovare spazio in quel caso. Se voi andate a vedere sembra di essere in un hotel cinque stelle. Qualcuno ha detto: ah, ma come, questi soldi spesi! La presidente, che è una imprenditrice privata, gli ha risposto per le rime (ma perché è una donna) e gli ha detto esattamente così: uno, quando muore, deve morire in maniera dignitosa, dove dignitoso vuol dire che deve essere circondato dai  suoi cari, dagli affetti famigliari. Infatti lì non ci sono le camere, ci sono dei mini appartamenti, dove il morente muore vicino all’affetto dei suoi. Secondo voi questa non è una bella idea? E perché non funziona? Naturalmente la Regione concorre, ma fino a un certo punto. Per il restante, si è creata una associazione Amici dell’hospice, che raccoglie i fondi.
Ve lo dico io perché lo conosco dall’interno: dentro, quando c’è da prendere le decisioni, non è che venga l’assessore o il direttore dell’Asl e dice bisogna fare così. No, lui è uno come gli altri, che dice la sua e deve ascoltare il parere degli altri. E siccome alla fine, con il dialogo, alla verità si arriva, le decisioni ci sono. Tra l’altro questo è un modo di applicare il cosiddetto metodo deliberativo della democrazia.
Potrei fare tanti altri esempi su altri campi diversi da quello dell’Hospice. Dobbiamo metterci in testa che le risorse ci sono, quello che è venuto a mancare sono le risorse pubbliche, è vero, e mancheranno sempre di più perché dobbiamo ridurre il debito pubblico. Abbiamo 1800 miliardi di debito pubblico. E’ ovvio, non c’è bisogno di essere economisti per capire questo. Ma da qui a dire che dobbiamo fare morire la gente di stenti e di sofferenze perché non ci sono risorse.. Chi dice questo si assume gravissime responsabilità. Di fronte alla società e di fronte a qualcun Altro, se ci crede. Perché non è vero,  le risorse ci sono, l’Italia è il sesto Paese al mondo per reddito pro capite, perché noi siamo il primo Paese esportatore al mondo, abbiamo battuto anche la Germania. Come si fa a dire che mancano le risorse? Il problema è che sono distribuite male, abbiamo un’ingiustizia che grida vendetta, questo è il punto, non che mancano le risorse. Perché a fronte del calo delle risorse pubbliche abbiamo un aumento delle risorse private. Allora bisogna tirarle fuori, ma per tirarle fuori bisogna avere responsabilità: tutti, gli amministratori pubblici, gli imprenditori privati, la società civile.
Ecco allora, le due strategie necessarie: primo, entriamo nell’attivo politico, e lì bisogna spaccare la testa ai politici che decidono; pensate, la legge sul volontariato è ancora quella del ’91. Ma secondo voi, negli  ultimi venti anni non è cambiato niente nel volontariato italiano? E teniamo una legge che è vecchia come il cucco, che fa acqua da tutte le parti.
Cosa volete, quest’anno il Parlamento ha fatto niente, dicono che non hanno il tempo. Noi come società civile dobbiamo insistere e dirglielo in faccia, dovete avere meno paura, perché quando uno sa di lottare per la verità e per la carità non deve vergognarsi di nessuno. Lottare in maniera civile, nessuno pensa di fare fuochi vari dappertutto. Però bisogna agire.
Secondo: far partire un modello di solidarietà. Voi a Taranto ce la potete fare, io lo so, perché il dialogo del modello di solidarietà circolare è molto più difficile da fare nelle grandi città come Milano, Roma, 4 milioni, 4 milioni e mezzo di persone. Ma una città come la vostra è a dimensione adeguata, si tratta di trovare i soggetti che accettino.
 Ovviamente la proposta deve essere bene equilibrata e bene illustrata, senza avere manie di grandezza. Basta cominciare a prendere un obiettivo, può essere gli asili nido se qui c’è un problema, oppure la sanità se c’è il problema. Ma anche far partire una mutua. Sanità integrativa di territorio. Perché non la fate partire? Voi non potrete mai avere mutue aziendali, poichè non avete le grandi aziende: un’azienda che ha 200 dipendenti non potrà mai fare una mutua. Se però quell’azienda e le altre si mettono assieme, si fa una gran bella mutua territoriale, sanità integrativa.
Vedete poi che tutte le cose cambiano. Avete chi la può gestire, perché avete le BCC, le banche di credito cooperativo, o altre banche che voi conoscete. Ho visto prima che qui c’è Banca Prossima, che è una banca a scopo non di lucro che si candiderebbe. Ce ne sarebbero tante, anche Unicredit, adesso ho scoperto che la settimana prossima a Roma tratterà un progetto per finanziare il non profit, ma anche Unibanca.
Siamo arrivati al punto in cui le grandi banche speculative, dopo avere fatto porcherie varie, hanno capito che adesso è cambiata la musica e che quindi bisogna mettere i soldi che si raccolgono dai risparmi anche per imprese sociali. Non solo per imprese cosiddette for profit. Perché anche loro sono produttrici. Se voi intercettate questa nuova ondata, il gioco è fatto. Perché poi, quando si ottiene un risultato, si genera il cosiddetto effetto valanga: all’inizio la valanga è una palla di neve, che, scendendo a valle raccoglie neve e diventa una grande valanga.  
Chiudo con un pensiero che mi è sempre piaciuto. E’ di S. Agostino. Sant’Agostino definisce la speranza come la virtù che ha due figli bellissimi: la figlia bellissima si chiama, dice lui, rabbia, l’indignazione che si deve provare quando si vede come vanno le cose attorno a noi; l’altro figlio si chiama coraggio. Il coraggio di vedere come potrebbero andare diversamente le cose solo se ci rimboccassimo un  pochino le maniche.
A me è sempre piaciuta questa definizione di speranza perché ci fa capire che la speranza non è la virtù di chi sta lì ad imprecare o a lamentarsi, ad aspettare. Ma è la virtù di chi si arrabbia. Capite cosa vuol dire arrabbiarsi, percepire la situazione di bisogno, che passa vicino, ma soprattutto prendere il coraggio. Perché, mentre l’animale vive nel tempo ma non ha il tempo, l’essere umano vive nel tempo e ha il tempo. Ed avere il tempo vuol dire avere la possibilità concreta di usare il tempo.
Vi faccio veramente di cuore tanti cari auguri per la vostra iniziativa. Non è facile raccogliere tante persone come stasera per parlare di questi temi, neppure a Milano. Io devo dire così perché mia moglie è milanese e devo dire che è superiore a un’altra. Poi dopo le dico: ma si, tu sei padana. Lei dice: no, no, io preferisco essere bolognese piuttosto che della regione padania.
Vi faccio veramente tanti auguri, perché voi siete nelle condizioni storiche di potere fare questo, ed è un fatto. Molti vengono ad aiutarvi, però dovete iniziare voi, perché nessuno potrà paternalisticamente venire a fare qualcosa se voi non aprite la porta. Perché la salvezza è una porta che si apre dall’intero non dall’esterno. Bisogna che chi è dentro apra, poi se uno apre verso l’esterno la porta, state pur certi che qualcosa arriva sempre. E’ sempre stato così nella storia, non vedo perché non debba essere così ora. Tanti cari auguri e buon lavoro.

Stefano Zamagni

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