In
occasione della “Presentazione
del ‘Libro bianco del Terzo settore’
tenuta
presso la Camera
di Commercio di Taranto - in collaborazione con il
Centro di Cultura “G. Lazzati”
dell’Università
Cattolica – Taranto
(Lo scopo unico della
trascrizione è quello di fermare il contenuto di quanto detto, per la memoria e
per eventuali possibili riflessioni. Perciò si possono notare i pregi
costituiti dalla vivacità dell’espressione orale ma, per i puristi, anche
qualche imprecisione formale) Trascrizione
integrale a cura di Francesco Carlucci
Stefano Zamagni
curatore del
‘Libro bianco del Terzo settore’
Sono molto lieto di essere qui. In questa città
sono venuto per la prima volta 48 anni fa. Capite quanto sono vecchio. Mi ero
appena laureato alla Cattolica di Milano quando il mio professore Francesco
Vito, economista, mi disse: ‘vai giù a vedere il triangolo industriale del Sud:
Bari, Brindisi, Taranto’ e poi fai un’analisi comparativa con il triangolo
industriale del Nord: Torino, Milano, Genova. Allora si parlava ancora di poli industriali,
di triangoli industriali. Dopo sono tornato altre volte.
Sono lieto di aver rivisto il vostro
arcivescovo, mons. Papa, con il quale ho collaborato per alcuni anni al Comitato
Tecnico Scientifico delle settimane Sociali dei cattolici. Ho avuto l’onore di
essere invitato alcuni anni fa al ‘Progetto Arcobaleno’. Questo per ribadire la
mia gioia di essere qua con voi.
Esprimo
dunque gratitudine al presidente Amalfitano, che è stato il primo a rivolgermi
l’invito. A lui mi lega un’antica amicizia. Saluto il presidente della Camera
di Commercio. Questa struttura deve essere abbastanza recente, mi complimento
per la bellezza e per la espansività che essa esprime.
Detto questo, una parola di precisazione. Questo
Libro bianco è frutto del lavoro dell’Agenzia per il Terzo Settore
che ha sede a Milano e che io presiedo dal 2007. Il mandato è quinquennale,
dunque al termine di questo anno la seconda consigliatura giunge al termine. E
come è prassi consolidata, quando volge al termine sorge il Libro bianco nel
quale sono indicate non tanto le realizzazioni fatte, ma le cose da fare.
Non intendo qui sintetizzare il volume.
Preferisco invece raccogliere la stimolazione che mi è venuta ascoltando gli
interventi che mi hanno preceduto e alcuni dialoghi avvenuti nei giorni passati
con alcuni dei presenti, in particolare Vincenzo Mercinelli, che coordina l’Accademia
Mediterranea di Economia Civile.
Questa
manifesta alcune tra le peculiarità del Mezzogiorno d’Italia, questa parte d’Italia
cui voi appartenete.
Voi sapete che l’espressione ‘Terzo Settore’ non
è italiana? E’ di derivazione francese. Troisiemme Secteur. Così come
l’espressione ‘no profit’, non è italiana, ma è anglosassone. Perché questo?
Perché questa sottolineatura?
Perché l’espressione Terzo Settore è una
espressione riduzionista rispetto alla nostra realtà italiana. Come sempre
capita quando una moda culturale, addirittura lessicale, prende dominanza, alla
fine si è costretti ad usarla. E’ una forma di colonialismo. E’ sempre esistito
quindi non ci dobbiamo meravigliare. Però è bene sapere cosa nasconde questo
riduzionismo. Dobbiamo conoscere che ci sono due paradigmi di Terzo Settore.
L’uno è il cosiddetto Terzo Settore redistributivo, l’altro è il Terzo
Settore produttivo.
Il primo (Terzo
Settore redistributivo) che ha avuto la sua origine in terra anglosassone, in
parte anche francese ma soprattutto l’Inghilterra, poi Stati Uniti, Canada e
altri: concepiscono i soggetti della società civile, che appunto chiamano terzo
settore, come dei soggetti che ridistribuiscono un reddito, diciamo
ricchezza in senso lato, che qualcun altro ha prodotto. Quindi la funzione di
questi soggetti, secondo il primo paradigma anglosassone, è quello di chiedere,
a chi si occupa di volontariato, di fondazioni e di organizzazioni non governative,
di ridistribuire. Con una mano si prende e con l’altra si ridistribuisce. Questo
modello è associato all’esperienza anglosassone della filantropia.
La filantropia non ha mai attecchito in Italia.
Chi è il filantropo? Il filantropo è un soggetto, un imprenditore molto bravo, che
è riuscito a fare tanto profitto e decide di sua spontanea volontà, senza
essere obbligato, di destinare una parte dei profitti che ha accumulato
dedicandoli a certe categorie o tipologie di società.
Quando Bill Gate, quattro anni fa, staccando un
assegno se non vado errato di 20 miliardi di dollari, ha istituito la Fondazione che reca il
proprio nome e quello della moglie, e ha creato lo statuto. Dice: ‘io do questi
soldi perché questa Fondazione deve perseguire questi scopi, uno, due tre. Deve
avere la seguente governance, cioè regole di governo, il presidente deve essere
nominato in un modo, ecc. ecc.’ Questa è la quintessenza del modello
filantropico. Non c’è assolutamente nulla di male in questo.
Quello che voglio evidenziare è che non è questa
la nostra tradizione italiana. Ma da noi è nato, perché il mondo del Terzo
settore, che sia ben chiaro, è nato in Italia ed è nato nel 1300.
Dicevo pocanzi in un’altra stanza, se noi
italiani fossimo meno fessi di quanto siamo, sapremmo valorizzare le nostre
radici. Invece dobbiamo sempre andare a rimorchio degli altri. E se voi
chiedete a qualcuno, secondo te quando è nato storicamente? E vi rispondono ‘è
nato in Inghilterra nel Settecento’ sono sciocchezze!
Perché il
Terzo settore è nato in Toscana e in Umbria e poi da lì si è sparso, già dal
1300 quando nascono le confraternite. Le misericordie quando sono nate? Le misericordie
sono nate alla fine del Duecento. Quando nascono i primi ospedali? Chi ha inventato
l’ospedale moderno? Noi italiani! Gli altri popoli, in quell’epoca, quando uno
si ammalava lo facevano morire. Noi invece li andavamo a raccogliere, perché si
pensava, e io dico giustamente, che non si può fare morire una persona come si
può fare morire un animale. Giusto? La stessa cosa è per le scuole e per l’università.
Chi ha finanziato le università per i primi quattro secoli?
Con questo voglio dire che la tradizione italiana
considerava il Terzo settore produttivo. Cioè produttore di ricchezza,
di reddito e a volte di occupazione. Questo non importa, ma diciamo produttore
di valore aggiunto. Dentro il valore aggiunto c’è chi sta peggio. Questa
concezione ha conosciuto momenti di alti e bassi come sempre capita ma, per
farla breve, a partire dal secondo dopoguerra, è accaduto un meccanismo tipico di
schiacciamento con la realizzazione di un modello di per sé validissimo, il
modello del Welfare State, dove la parola chiave è State, non welfare. State
vuol dire Stato. Si è cominciato a dire: al benessere dei portatori di bisogni
(bisogno di tutti i tipi, bambini, anziani, malati, portatori di handicap..) ci
deve pensare lo Stato. Lo Stato deve farsi carico dei portatori di bisogni delle
diverse tipologie degli stessi, e lo Stato finanzia queste iniziative con la
fiscalità generale.
Questo ha avuto l’effetto appena ricordato,
quello di provocare uno schiacciamento. Cioè tutte quelle forme di associazioni
che fino alla legge Crispi del 1891 si chiamavano Opere pie, scompaiono e i
nostri soggetti della società civile finiscono col seguire il modello
anglosassone; quindi diventano anche loro Terzo settore redistributivo.
Nel territorio italiano, come voi sapete, il
modello fondazionale non ha mai attecchito. Perché? Perché per avere le
fondazioni ci vogliono i fondi. La parola fondazione evoca la parola fondo. Ci
deve essere qualcuno che sgancia e mette lì un certo ammontare con cui finanziare
le attività. Ma siccome l’Italia non è un Paese che ha la grande impresa, (ne
ha qualcuna, ma sono poche) capiamo perché nella nostra situazione il modello
fondazionale non ha mai attecchito.
Ecco perchè le risorse per finanziare i soggetti
di Terzo settore sono fornite, (fino all’altro ieri), dalla Pubblica Amministrazione:
Stato, Regioni, Province, Comuni. Ora, fino a che queste risorse c’erano, non
si sono avvertiti grossi problemi.
La stretta è cominciata nel 2008 per le ragioni
a tutti note. La crisi tuttora in atto da un lato, ma soprattutto la necessità
di azzerare tendenzialmente il debito pubblico di cui tutti parlano, hanno portato
a questo stato di cose: i soggetti del Terzo settore abituati, per circa 35-40
anni dal dopoguerra, ad ottenere le risorse di cui hanno bisogno per svolgere
la loro attività, dagli enti pubblici e non tanto dai filantropi privati, oggi
si trovano in difficoltà enormi. Anche perché non solo non ottengono più risorse
aggiuntive, ma neppure ottengono il pagamento dei debiti che la pubblica
amministrazione locale ha nei confronti di questi soggetti, soprattutto le cooperative
sociali.
Noi
conosciamo, come Agenzia del Terzo Settore, una miriade di cooperative sociali
che vantano crediti nei confronti della Pubblica Amministrazione. Ma non da un
mese o due. Dai diciotto mesi in su. Ora voi capite, una cooperativa sociale
che non può accedere al mercato dei capitali per finanziarsi, come può
continuare se non li ottiene dalla P.A.? E allora capite che oggi il rischio è
veramente notevole. E’ quello di strangolare questi soggetti abituati per lungo
tempo all’inverso, con la campana protettrice della Pubblica Amministrazione.
Il sindaco dice: ‘guarda, tu sei presidente di quella cooperativa sociale, tu
sei presidente di quella impresa sociale ecc. Facciamo una convenzione. Io ti
do i soldi tu mi gestisci l’asilo nido. Oppure mi gestisci la casa di cura e
così via’. Questo fino a pochi anni fa ha funzionato. Ed è questo il motivo per
cui i nostri soggetti di Terzo settore sono diventati degli ottimi esecutori di
ordini. L’ente pubblico decide, perché i soldi sono suoi, altrimenti affida la
gestione di quell’asilo a qualcun altro.
Questa
situazione ha avuto un duplice effetto dannoso. Da un lato ha deresponsabilizzato
la società civile. L’argomento era: perché dovrei preoccuparmi io della
solidarietà? Lo diremo al sindaco o alla Regione a secondo dei casi. E loro se
ne prenderanno cura. Noi abbiamo assolto ai nostri doveri pagando le tasse..
Poi non si pagano neanche quelle, ma quello è un altro discorso, è un’aggravante
mettiamola così: un’aggravante.
Concettualmente l’idea che era passata era che
il cittadino assolve ai propri doveri pagando le tasse con le quali lo Stato o
l’ente pubblico provvede ai bisogni. E’ la prima implicazione del modello che
per l’Italia è cominciato nel dopoguerra. Non c‘era mai stato nei secoli
precedenti. Questo è il punto: è stato come una droga. Deresponsabilizzazione da
parte dei cittadini e per quanto riguarda le organizzazioni del terzo settore
un’atteggiamento passivo.
Cosa vuol dire passivo? Le decisioni venivano
prese dall’Ente Pubblico il quale fissava le modalità, le gare d’appalto al
massimo ribasso e tutte queste diavolerie. E chi otteneva la convenzione e
vinceva la gara doveva eseguire quanto altri avevano stabilito.
Negli ultimi anni la Pubblica Amministrazione
non ha più quelle risorse, e adesso capite perché si assiste ad un risveglio. Non
tutti ancora, ma molti in Italia stanno aprendo gli occhi e dicono: ‘dobbiamo
tornare al nostro modello cominciato nel 1200 e che è andato avanti fino alla
metà del Novecento’. Cioè il modello di Terzo settore produttivo che produce,
non che ridistribuisce quanto altri ha fatto, ma che produce.
E’ evidente che questo discorso vale in generale
per tutto il Terzo Settore italiano. Quando focalizziamo l’attenzione sul Mezzogiorno
d’Italia, c’è un’ulteriore aggravante: al Nord e al Centro Nord ma soprattutto
al Nord, a parte le ragioni di struttura economica a tutti note, c’è tanta la
presenza di imprese, non pubbliche come qua, ma private e di un certo rilievo.
I soggetti di Terzo settore sono sempre riusciti a stabilire una sorta di
alleanza con il mondo del for profit, cioè il mondo privato. Volete chiamarlo
delle imprese di tipo capitalistico? Non importa, quello che volete.
Quindi è accaduto che, nel momento in cui si è
verificata la stretta attuale, questi soggetti in qualche modo riescono a
cavarsela perché, chiuso il rubinetto della Pubblica Amministrazione, si sta
aprendo il rubinetto dell’impresa privata, cioè l’impresa for profit. Nel Mezzogiorno
invece, siccome le imprese per le note ragioni sono come sono, accade che i
soggetti di Terzo Settore non sanno a che santo votarsi. Questo è il problema.
Faccio alcuni esempi: pensate all’Anpas, le pubbliche
assistenze, pensate alle Croci. In Emilia Romagna, io vivo a Bologna, ce ne
sono di tutti i colori. Croce bianca, Croce gialla, Croce verde ecc... Croce Rossa
è a parte, perché è un ente pubblico. Un errore tragico risalente ad alcuni
anni fa: chi ha promosso quella legge adesso dovrebbe battersi il petto tre
volte all’ora… Ma non dobbiamo parlare di questo.
Questi enti sono soggetti che, se incrociassero
le braccia (perché sono volontariato eh! Le croci sono associazioni di
volontariato, non sono impiegati quelli che guidano e che vanno a raccogliere
gli ammalati) immaginate voi, a mò di
esercizio intellettuale, cosa succederebbe se domani questi incrociassero le
braccia. Poiché non hanno un contratto, non sono obbligati, il fascio di
mortalità aumenterebbe spaventosamente nel nostro paese, e le Asl potremmo
chiuderle, perché non avrebbero più chi può portare all’ospedale o al pronto
soccorso il malcapitato. Eppure nessuno ragiona in questi termini.
Quando
voi vedete sfrecciare le ambulanze, dovete sapere che lì ci sono dei volontari,
gente che non è pagata: quando va bene ottiene il rimborso spese, ma quando va
bene, perché a volte non ottengono neanche più quello dalla Pubblica Amministrazione.
Non gli danno neppure i soldi per pagare la benzina. Allora voi capite che
questo è un esempio di volontariato produttivo. E’ produttivo di valore, come
quelli che portano l’assistenza sanitaria a casa, a domicilio e così via.
Non parliamo poi delle cooperative sociali. Se
non sono produttive quelle! Voi sapete che la legge sulla cooperativa sociale,
sulle imprese sociali ce l’ha solo
l’Italia? Gli altri paesi europei non ce l’hanno. E’ la ragione per la quale a
loro le cose andranno molto peggio che da noi. Però non dobbiamo essere egoisti
e dire peggio per loro, dobbiamo aiutarli a venire qua a imparare da noi. Fare
un sano esercizio di umiltà, dopo i decenni in cui ci prendevano in giro.
Questi enti sono produttivi, e come! La stessa
cosa vale per le cosiddette APS, che vuol dire Associazioni di Promozione Sociale.
Le Acli sono una APS. L’Arci è un’Aps, l’Ancescao è una Aps. Ancescao,
cioè l’Associazione Nazionale dei Centri per gli anziani che sono ancora
autosufficienti, ma che evidentemente hanno bisogno di determinate attenzioni, servizi
e così via.
Il punto è che nel caso del Mezzogiorno, non ci
sono quelle strutture in parallelo: pensate in Emilia Romagna ad imprese come la Barilla di Parma o alla
Ducati di Bologna, la GB
di Bologna, che è un’impresa leader mondiale, fanno macchine diaboliche che
sono perfettissime. Pensate ancora alle imprese come ad esempio la Sac di Imola. E’ chiaro che
queste sono imprese private che hanno in questi ultimissimi anni stabilito un’alleanza,
poi dirò cosa vuol dire alleanza, con i soggetti del Terzo Settore.
Il
problema del Sud è che questo non c’è stato, pensate alle Fondazioni bancarie:
l’Emilia Romagna ha 19 Fondazioni bancarie. Diciannove. Voi sapete cosa sono le
fondazioni bancarie? Al Sud non ne avete, a parte due o tre con poca roba rispetto
ai bisogni che ci sono in questa terra dove vive circa il 36-37% dell’intera
popolazione nazionale. E’ ovvio che una regione come l’Emilia Romagna in cui ci
sono 19 fondazioni bancarie, ognuna delle quali riversa sul sociale, diciamo
così, ci mette in media due milioni all’anno per i propri territori. Ci sono imprese che prendendo sul serio il
discorso Corporate Social Responsability, cioè della responsabilità sociale
dell’impresa, si sentono invogliate e coinvolte in questa forma di
progettazione. Ecco allora il punto che occorre: il Sud è stato doppiamente
danneggiato. La prima ragione vale per tutto il terzo settore italiano. La
seconda ragione è quella di cui ho fatto appena parola.
Bisogna intervenire. Non si può continuare così,
perché anche il tentativo disperato che qualcuno fa di tirare la giacchetta al
sindaco o all’assessore di turno è destinato all’insuccesso. A questo punto non
hanno i soldi neanche per piangere, è evidente che è inutile pretendere risorse
che comunque non possono dare, se non in misura limitata.
Quando uno arriva a capire questo capisce perché
siamo alla vigilia di un grande balzo o di una grande svolta. E la svolta è
esattamente questa: faccio adesso una congettura, cioè una previsione sul
futuro, vedremo se ci azzecchiamo.
La mia previsione è che nei prossimi anni il Terzo
settore conoscerà un nuovo rinascimento, un nuovo risorgimento. Ma non perché
lo dica io, lo dicono i fatti, lo dice la situazione. Perché non è possibile.
Vedrete voi, quando le aziende sanitarie locali
non riusciranno neppure a garantire l’IDEA, (l’idea sono i livelli essenziali
di assistenza). Vedrete allora se avremo sul serio il federalismo fiscale,
adesso sono stati approvati gli ultimi otto decreti delegati e si è in attesa di
due altre deleghe. Poi è chiaro può sempre succedere di tutto, ma se la tendenza
sarà di andare verso la presa in considerazione del federalismo fiscale del Settentrione,
ne vedremo delle belle. Noi italiani abbiamo questa bella virtù, siamo
pragmatici, nel senso che ci piangiamo addosso. Poi quando vediamo che siamo
sull’orlo del precipizio smettiamo di piangere e ci rimbocchiamo le maniche.
Che succederà?
Adesso, la seconda parte della mia presentazione
è questa. Che cosa bisogna fare per accelerare questa svolta, visto che la
situazione è seria più di quanto non sembri? Sapete in questi anni di crisi
cosa ha funzionato come tampone, come pezza sul tessuto slabbrato? Quelle forme
di carità che prendono nomi di Caritas diocesana.
Io adesso non so qui, ma io vedo nella mia Bologna.
Se voi andate a mezzogiorno alla sede della Caritas bolognese, alla sede delle
mense della carità dei francescani, voi vedete delle file lunghe da qui fino a
lì. Gente che non ha i vestiti stracciati: se voi li vedete per la strada dite ‘stanno
bene'. Eppure a mezzogiorno e alla sera, alle sette fanno la fila per avere un
piatto di minestra. A Bologna eh?! Io non so qui. Vuol dire che fino adesso
queste strutture in prevalenza legate alla Chiesa, al movimento cattolico
italiano hanno tamponato. Voi capite che non si può continuare così. Perché
anche le varie diocesi cominciano a denunciare il calo delle risorse. Per un
certo numero di mesi o di anni si può utilizzare le riserve, ma poi finiscono.
D’altra parte il modello della Caritas è di tipo distributivo oltre ad impegnarsi
nella funzione educativa.
Bisogna mettersi in testa che dobbiamo fare i
soldi: dobbiamo pensare al volontariato, a cooperative sociali, a imprese
sociali ecc., come soggetti che producono. Allora, la domanda è: cosa bisogna
fare per accelerare questo processo?
Bisogna agire su due piani.
Il primo è quello che riguarda l’assetto
istituzionale, legislativo, istituzionale. Su questo, non tocca a me dare
giudizi né dare condanne. Qualcun altro se mai. Ma il nostro ceto politico è
massimamente responsabile. Tutti. Ho detto tutti, eh?!
Perché
negli ultimi tre, quattro anni non hanno fatto quello che potevano fare, perché
questa è una questione di Parlamento, perché le leggi le fa il Parlamento. Io
sto parlando di assetto istituzionale, a livello nazionale. Quando vedete un
politico nazionale, dovete dirgli: perché non hai fatto questo che potevi fare?
Eh, dice, non c’erano risorse. Dovete rispondergli: bugia! Perché per fare le
leggi nuove non c’è bisogno di risorse. Anzi, sono un risparmio. E’ che non lo
si vuole fare. Perché al nostro ceto politico interessa il terzo settore redistributivo.
Non facciamo fatica capirlo! Lo capiscono anche i miei quattro nipotini, persino
loro lo capiscono. E’ ovvio. ‘Redistributivo’ vuol dire che qualcuno deve dare
e poi dopo tu spendi. E chi ti dà, ovviamente, poi ti fa fare qualcosa. Questa
è la realtà che va denunciata, perché è una vergogna, molti sanno queste cose e
non lo dicono, perché l’ipocrisia è quella che ci ha rovinato negli ultimi
anni. Ipocrisia è una parola greca, vuol
dire mettere il veto. Bisogna
togliere il veto.
Esempio: Libro I, titolo II del Codice Civile.
E’ quel grumo di articoli che riguardano il Terzo settore. Lo sapete voi che
quel Libro I titolo II, una manciata di articoli del Codice Civile, è ancora
quello del 1942, quando il Codice Civile venne approvato? E venne
approvato in epoca fascista. Quindi quell’impianto è ancora un impianto fascista.
Sarà perché agli italiani piace il fascismo, a me personalmente non è mai
piaciuto, mi piace la democrazia e la libertà. Però non so cosa dire, perché i
parlamentari hanno cambiato in 70 anni il libro II, il libro III, IV e V del
Codice Civile, ma hanno lasciato intatto il Libro I.
Il Libro I
ha ancora un impianto filosofico, antropologico basato sul principio
concessorio. Concessorio vuol dire
che è l’ente pubblico o il prefetto
in certi casi che ti consente di fare
impresa. Noi dobbiamo passare dal regime concessorio al regime del riconoscimento.
L’ente pubblico deve riconoscere, non concedere. Tu Stato non concedi un bel
niente, perché se tu vuoi concedere vuol dire che sei uno Stato Etico, come lo
chiamava Hegel, cioè sei uno Stato dittatoriale. E noi vogliamo la libertà: quindi
lo Stato non è la sorgente dell’etica.
So che a qualcuno queste parole danno fastidio,
perché vorrebbero che fosse lo Stato a decretare cosa è il bene e cosa è il
male, il giusto e l’ingiusto. Ma lo Stato appartiene all’ordine dei mezzi,
non all’ordine dei fini. Lo Stato è uno strumento, non è il fine. Quindi,
tu Stato non concedi un bel niente: tu devi riconoscere.
Se a Taranto c’è un gruppo di persone che ha
dato vita ad una certa associazione, tu devi riconoscere. Invece adesso,
provate voi a fare una fondazione, un’associazione; c’è bisogno di una
registrazione, poi c’è un funzionario che gli gira storto e ti dice: no, non va
bene lo statuto, devi rifarlo. Lo sapete che per fare un’associazione ci vuole
più tempo che fare una impresa? Ecco che bisogna cambiare.
Dovete sapere che c’è un articolato di proposte,
di iniziative, nel Libro bianco. Non è che uno deve impiegare dieci anni; c’è
una commissione di cui io stesso ho fatto parte alcuni anni fa, che ha redatto
tutta l’alternativa. Ed è una bella cosa. Sono passati tre anni e mezzo, non se
ne parla. Tutte le insistenze nostre, nostre dico come Agenzia: ‘per favore, vi
supplichiamo’. Ormai non ci vado più a fare le audizioni, si va a perder tempo:
mi chiamano per l’audizione, mi dicono ‘prepara tu una proposta’; discutiamo,
lavoriamo, la prepariamo, poi non si fa niente.
Capite che fin quando non si cambiano quegli
articoli, ci sarà sempre qualcuno che potrebbe denunciare questo o quell’altro
per non aver seguito i canoni. Perchè la Costituzione è come
il quadro generale, ma per l’operatività quotidiana contano gli articoli del
Codice Civile. Alla Costituzione si deve fare riferimento, ma gli operatori in
carne ed ossa devono vedersela col Codice Civile.
Il
paradosso è che su quella proposta di modifica del Libro I, vi era l’accordo bipartisan
di maggioranza e opposizione. Sono tutti d’accordo, e si capisce perché, vorrei
uno che obiettasse. Si vergognerebbe. Eppure, nonostante ci sia l’accordo, la
modifica non va.
Una seconda modifica, ancora più facile: voi
sapete che nel 2008 è entrata in vigore la Legge sull’impresa
sociale. E’ una bellissima legge.
Ho detto prima che in Europa siamo l’unico Paese
ad avere promulgato la legge sull’impresa sociale. In Inghilterra non c’è, non
ce l’ha la Francia,
non ce l’ha la Germania.
Allora vuol dire siamo bravi? E no! Perché il demonio si
nasconde nei particolari. Quale è il particolare? Se voi andate a prendere una
legge dei decreti attuativi, all’impresa sociale (che è una impresa che non ha fine lucrativo), non
vengono estesi i benefici fiscali di cui possono godere le cooperative
sociali e le associazioni di volontariato, le cosiddette Onlus.
Il decreto legislativo delle Onlus, il 460 del
’97, che so quasi a memoria (per ovvie ragioni, ho dovuto farlo io) dice che secondo
certi canoni, l’Onlus non paga le tasse, ha dei benefici sull’Iva ecc. Ora, la
legge sull’impresa sociale non le riconosce le stesse cose. Adesso capite perché
non possono nascere le imprese sociali, e le Camere di Commercio lo sanno.
Voi direte: ma ne risultano molte. State attenti
ai trucchi statistici, perché le cooperative sociali possono chiedere
l’iscrizione al registro delle imprese sociali. Ma perché lo fanno? Perché in
quanto cooperative sociali già beneficiano degli sgravi fiscali e quindi acquisiscono
anche i benefici previsti per l’impresa sociale.
Ma se io domani assieme ad alcuni di voi voglio
fare un’impresa sociale a Taranto, di fatto non la possiamo fare, perché
dobbiamo pagare tutte le tasse come la
Fiat, o come le grandi imprese o come le banche. Penso che ci
sia un po’ di differenza, giusto? Ecco allora, vedete che è veramente
diabolico: vi faccio la legge bella, però la rendo inapplicabile.
L’ultima volta in cui mi sono arrabbiato è stato
il 2 settembre scorso: le Acli nazionali dovevano fare la loro assemblea, quella
che fanno tutti gli anni, e avevano invitato quella mattina a parlare me e
Tremonti e altri. Allora gli ho detto davanti a mille persone: caro ministro
Tremonti, perché non fai una leggina di un articolo, due righe, in cui si dice che
alle imprese sociali, ex legge 2008, vengono estesi, laddove applicabili,
ovviamente, i benefici fiscali delle Onlus? Dico, non stare a dirmi (tra colleghi si dà del tu) che avresti
timore di perdere il gettito fiscale, eh?! Perché se dici questo ti boccio
subito, perché sei un po’ ignorantino in economia. Lui è un fiscalista, un
tributarista, un giurista, non è un economista. Di economia non sa niente, sarà
molto bravo nel resto, questo lo dicono tutti e tutti lo sanno. Interrogatelo,
non su questioni economiche, su una argomentazione di diritto, non so.. Uno mi
metterebbe in buca se portasse il discorso sul filo del diritto.
Con le imprese sociali, siccome non esistono,
non avresti una perdita di getto, anzi, avresti un aumento. Lui mi disse:
lasciamici pensare, è una buona idea. E’ passato un mese e mezzo, ancora
niente. Può darsi che lo inserisca adesso nel cosiddetto decreto sviluppo, speriamo!
Noi come Agenzia abbiamo fatto un esercizio di
simulazione, che mostra che, se ci fosse questa leggina di due righe, nei
prossimi sei/otto mesi in Italia, soprattutto al Sud, potrebbero nascere 50-60
mila imprese sociali nuove. E 50-60 mila imprese sociali nuove, mettete voi
un moltiplicatore occupazionale di 7-8. Un’impresa
sociale bisogna che faccia lavorare almeno sette persone, moltiplicando
otterrete subito 600-650 mila posti di lavoro, senza perdita di getto. Perché
non si fa?
Quando io
parlo di modifica dell’impianto legislativo istituzionale sto parlando di cose
concrete. Ho voluto fare solo questi due esempi, per farvi capire cosa vuol
dire.
Perché vedete, noi italiani siamo buffi; abbiamo
cambiato dieci anni fa la
Costituzione introducendo gli articoli 118-119 che
introducono il principio di sussidiarietà. Nessun’altra Costituzione ha il principio
di sussidiarietà. Quindi noi siamo sempre i primi, ma qualche volta siamo non
funzionali. Abbiamo introdotto il
principio di sussidiarietà ma non lo facciamo funzionare perché non vogliamo
adeguare il sistema fiscale tributario a quei principi, quindi in teoria ce
l’abbiamo, in pratica non funziona.
Però non basta, bisogna agire su quell’altro piano
per accelerare. E quell’altro piano è l’alleanza.
Bisogna che i soggetti di Terzo settore facciano un’alleanza strategica con gli
enti locali e con il mondo delle imprese private.
In altre
parole, l’obiettivo che dobbiamo perseguire è di realizzare quella versione del
principio di sussidiarietà che si chiama sussidiarietà circolare.
Com’è che nessuno ce l’ha mai detto? Quando si
parla di sussidiarietà tutti fanno riferimento a quella verticale e a quella
orizzontale. Benissimo. Però la sussidiarietà verticale non è sussidiarietà, si chiama devoluzione, si chiama
decentramento amministrativo: lo Stato decentralizza alla Regione, la Regione ai Comuni; quella
non è sussidiarietà, quello è
decentramento, che va benissimo e ci vuole. La sussidiarietà orizzontale invece vuol dire quello che
tutti sanno: ci sono dei cittadini che si sono organizzati in una forma o nell’altra
per soddisfare determinate categorie di bisogni ed è bene lasciar fare. Questa
è la sussidiarietà orizzontale di cui parla l’art. 118 e 119 della nuova Carta
costituzionale italiana.
Mi direte voi: e allora perché abbiamo bisogno
della sussidiarietà circolare?
La risposta è che la sussidiarietà orizzontale da sola non garantisce l’universalità.
Ecco perché il 4 ottobre scorso, festa di San
Petronio il patrono di Bologna, il mio cardinale fa l’omelia e lancia il
principio di sussidiarietà e lo spiega, ma non ha usato l’aggettivo circolare. Apriti cielo! Il giorno dopo,
ancora oggi, su tutti i giornali: ecco, ‘il cardinale vuole eliminare i diritti
di cittadinanza, non è più a favore dell’universalismo…’ e così via. Poi
qualcuno si stufa e glie ne canta per le rime, perché lì c’era veramente della
disonestà intellettuale, perché è vero che non ha usato l’aggettivo circolare,
però il concetto era quello della sussidiarietà circolare.
Perché, vedete, la sussidiarietà orizzontale da
sola non garantisce l’universalismo. Sapete cosa è l’universalismo? A tutti i cittadini, indipendentemente da come
sono fatti in faccia, devono essere riconosciuti
determinati servizi di welfare, sanità, assistenza, la scuola ecc.
Con la sussidiarietà orizzontale, invece, voi
fate dipendere l’ottenimento di quei servizi dall’adesione della persona a quel
gruppo, a quella associazione. E se io non voglio essere socio di quella, delle
Acli o dell’Arci? Non puoi obbligarmi, ma se non sono socio non ho accesso ai
servizi. Questo vuol dire che non si garantisce l’universalismo. Questi sono
problemi di sanità. Qual è il senso della riforma che abbiamo fatto negli anni
Settanta? Quello di dire che chiunque, addirittura indipendentemente se cittadino
italiano o no, se va al Pronto Soccorso, se non lo ammazzano prima, dopo lo
fanno star bene. Lo dico perché qua c’è
il direttore della Asl.
E allora il punto è esattamente questo: la risposta
è la sussidiarietà circolare. Perché è quel modello di sussidiarietà che fa
stare assieme la libertà di scelta, come la sussidiarietà orizzontale, però
garantisce l’universalismo. Nei confronti della sussidiarietà circolare, le
obiezioni che di tanto in tanto si odono da parte di certe parti politiche, vengono
messe a tacere. Ovviamente questi giocano sugli equivoci, siccome la gente è ignorante
e non sa, e siccome è vero che la sussidiarietà orizzontale non garantisce l’universalismo,
allora la conclusione è: no, dobbiamo riproporre il modello statalista. O il
neo statalismo.
Allora ecco l’alleanza cui facevo riferimento: il
Terzo settore in questo momento storico ha messo a punto una strategia, quella
di iniziare un processo di alleanza che veda alleati enti locali o enti
pubblici da un lato, e dall’altro il mondo
della business community, cioè il mondo dell’impresa in senso ampio. Terzo
vertice del triangolo è il mondo della società civile organizzata, cioè il
mondo del cosiddetto Terzo settore. Questi tre vertici devono interagire tra di
loro. Ecco perché si chiama circolare.
Sulla base di un principio di mutuo rispetto e della parità dei diritti o, ovviamente,
dei doveri.
Ciò che infastidisce un’associazione di
volontariato, un partito sociale, a volte fondazioni di comunità, è che uno
partecipi ai tavoli per essere consultato: Dimmi tu cosa pensi. Poi io sono
l’assessore decido tutto io. Ma vogliamo scherzare? Dice: ma io sono stato
eletto. Ah, tu sei stato eletto, ma tu sai cosa è la democrazia o no? Tu sei stato eletto per perseguire il bene
comune, non per fare quello che la tua testa dice. Perché se tu scopri che la
tua testa, limitata come quella di tutti, non ti consente di perseguire il bene
comune, ti devi mettere attorno al tavolo, e lo facciamo triangolare a scanso
di equivoci, in cui agli altri lati ci sono gli altri. Ognuno mantiene la
propria identità, e tu, ente pubblico, hai una funzione che è quella di
garantire l’universalismo. Tu però non hai più le risorse, allora facciamo
entrare in gioco il vertice della business community. Ma nel mondo delle imprese
ce ne sarà qualcuno egoista che andrà all’inferno, per forza. Dove lo vuoi
mandare un egoista? Però la gran parte degli imprenditori non sono egoisti.
Domanda, allora, perché non sganciano di più? Ve
lo dico io, perché io parlo con loro, continuamente. Mi dicono: noi daremmo e
daremmo molto di più, però vogliamo contare anche noi, non che arriva un qualche
burocrate e ci dice: noi decidiamo i servizi come farli, dove metterli, e poi
tu imprenditore dai 200 mila euro. Allora ti arrangi. Bisogna che tutti e tre
gli interpreti facciano un passo avanti nella direzione dell’alleanza, e allora
vedrete che i soldi vengono fuori.
Voi
direte: come fai? Io vi porto l’esempio, caso per caso, in cui imprenditori si
sono messi insieme e hanno realizzato il cosiddetto welfare territoriale.
Ho detto territoriale, non aziendale. L’aziendale è la sussidiarietà
orizzontale.
Voi
impossessatevi di questi termini, così, quando qualcuno fa il fesso rispondete
per le rime e lo zittite, perché non è ammesso che uno, essendo ignorante, cioè
non conoscendo, voglia dettare leggi. Se uno è ignorante bisogna istruirlo e
aiutarlo.
In una recente indagine pubblicata da Aspra
Ricerche un paio di mesi fa, hanno preso un campione di imprese: il 70% di
questo campione, formato da imprese private ha detto, noi ci impegniamo a
starci se ci coinvolgessero nella forma di cui ho detto brevemente. Non possono
pretendere di venire da noi a chiedere l’obolo e poi loro decidono, perché così
non lo facciamo. Ecco cosa è la sussidiarietà circolare.
Chi può essere il soggetto dei tre che mette in
moto? Nella circolare ci vuole uno che metta in moto la macchinetta, come le
macchine di una volta che bisognava metterle in moto dal davanti. Questo
soggetto è il Terzo settore, perché il Terzo settore ha la conoscenza, ha il
know how, sa come fare e soprattutto ha la reputazione per farlo. Quindi il terzo settore deve prendere per la
giacchetta l’assessore, in senso metaforico, e il presidente degli industriali,
della Camera di Commercio e dire: mettiamoci qua. Mettiamo prima la regola
che nessuno può dire ‘io comando su di te’ ; parità di diritti e di doveri, principio di
responsabilità, e definiamo determinati obiettivi: gli asili nido, gli anziani
non autosufficienti.. Ogni territorio ha le sue necessità, è chiaro che le
vostre necessità sono diverse da quelle di Bologna o di Milano ecc. perché i
bisogni dipendo dai settori e solo voi conoscete i bisogni del vostro
territorio.
Vi mettete e organizzate. Vi faccio solo un
esempio: a Bologna c’è l’hospice, il primo d’Italia. Sapete cosa è hospice? Una
specie di ospedale dove la gente va a morire, dove mettono i malati terminali,
soprattutto gli oncologici, i macrologici; ebbene l’hospice vicino a Bologna,
che è il più bello e il più funzionale a livello europeo, il disegno sapete chi
l’ha fatto? L’architetto Renzo Piano, l’ha fatto gratis, per zero euro. Vedete
lui è un imprenditore, ha un grande studio. Se non è un imprenditore lui! Però,
coinvolto opportunamente dice, io ho fatto il disegno, seguo i lavori, é a
Bentivoglio vicino a Bologna, è uno spettacolo.
L’idea era che i morenti devono morire bene, non
male come i cani che si mettono nei sottoscala. E allora serve la bellezza,
cioè la filocalia, che vuol dire l’amore per la bellezza, deve trovare spazio
in quel caso. Se voi andate a vedere sembra di essere in un hotel cinque
stelle. Qualcuno ha detto: ah, ma come, questi soldi spesi! La presidente, che
è una imprenditrice privata, gli ha risposto per le rime (ma perché è una
donna) e gli ha detto esattamente così: uno, quando muore, deve morire in
maniera dignitosa, dove dignitoso vuol dire che deve essere circondato dai suoi cari, dagli affetti famigliari. Infatti
lì non ci sono le camere, ci sono dei mini appartamenti, dove il morente muore
vicino all’affetto dei suoi. Secondo voi questa non è una bella idea? E perché non
funziona? Naturalmente la
Regione concorre, ma fino a un certo punto. Per il restante, si
è creata una associazione Amici dell’hospice, che raccoglie i fondi.
Ve lo dico io perché lo conosco dall’interno: dentro,
quando c’è da prendere le decisioni, non è che venga l’assessore o il direttore
dell’Asl e dice bisogna fare così. No, lui è uno come gli altri, che dice la
sua e deve ascoltare il parere degli altri. E siccome alla fine, con il dialogo,
alla verità si arriva, le decisioni ci sono. Tra l’altro questo è un modo di
applicare il cosiddetto metodo deliberativo della democrazia.
Potrei fare tanti altri esempi su altri campi
diversi da quello dell’Hospice. Dobbiamo metterci in testa che le risorse ci
sono, quello che è venuto a mancare sono le risorse pubbliche, è vero, e
mancheranno sempre di più perché dobbiamo ridurre il debito pubblico. Abbiamo
1800 miliardi di debito pubblico. E’ ovvio, non c’è bisogno di essere economisti
per capire questo. Ma da qui a dire che dobbiamo fare morire la gente di stenti
e di sofferenze perché non ci sono risorse.. Chi dice questo si assume
gravissime responsabilità. Di fronte alla società e di fronte a qualcun Altro,
se ci crede. Perché non è vero, le
risorse ci sono, l’Italia è il sesto Paese al mondo per reddito pro capite, perché
noi siamo il primo Paese esportatore al mondo, abbiamo battuto anche la Germania. Come si fa
a dire che mancano le risorse? Il problema è che sono distribuite male, abbiamo
un’ingiustizia che grida vendetta, questo è il punto, non che mancano le
risorse. Perché a fronte del calo delle risorse pubbliche abbiamo un aumento delle
risorse private. Allora bisogna tirarle fuori, ma per tirarle fuori bisogna
avere responsabilità: tutti, gli amministratori pubblici, gli imprenditori
privati, la società civile.
Ecco allora, le due strategie necessarie: primo, entriamo nell’attivo politico, e
lì bisogna spaccare la testa ai politici che decidono; pensate, la legge sul
volontariato è ancora quella del ’91. Ma secondo voi, negli ultimi venti anni non è cambiato niente nel
volontariato italiano? E teniamo una legge che è vecchia come il cucco, che fa
acqua da tutte le parti.
Cosa volete, quest’anno il Parlamento ha fatto
niente, dicono che non hanno il tempo. Noi come società civile dobbiamo insistere
e dirglielo in faccia, dovete avere meno paura, perché quando uno sa di lottare
per la verità e per la carità non deve vergognarsi di nessuno. Lottare in maniera
civile, nessuno pensa di fare fuochi vari dappertutto. Però bisogna agire.
Secondo: far
partire un modello di solidarietà. Voi a Taranto ce la potete fare, io lo so, perché
il dialogo del modello di solidarietà circolare è molto più difficile da fare
nelle grandi città come Milano, Roma, 4 milioni, 4 milioni e mezzo di persone.
Ma una città come la vostra è a dimensione adeguata, si tratta di trovare i
soggetti che accettino.
Ovviamente la proposta deve essere bene
equilibrata e bene illustrata, senza avere manie di grandezza. Basta cominciare
a prendere un obiettivo, può essere gli asili nido se qui c’è un problema,
oppure la sanità se c’è il problema. Ma anche far partire una mutua. Sanità integrativa di territorio.
Perché non la fate partire? Voi non potrete mai avere mutue aziendali, poichè
non avete le grandi aziende: un’azienda che ha 200 dipendenti non potrà mai
fare una mutua. Se però quell’azienda e le altre si mettono assieme, si fa una
gran bella mutua territoriale, sanità integrativa.
Vedete poi che tutte le cose cambiano. Avete chi
la può gestire, perché avete le BCC, le banche di credito cooperativo, o altre
banche che voi conoscete. Ho visto prima che qui c’è Banca Prossima, che è una
banca a scopo non di lucro che si candiderebbe. Ce ne sarebbero tante, anche
Unicredit, adesso ho scoperto che la settimana prossima a Roma tratterà un
progetto per finanziare il non profit, ma anche Unibanca.
Siamo arrivati al punto in cui le grandi banche
speculative, dopo avere fatto porcherie varie, hanno capito che adesso è
cambiata la musica e che quindi bisogna mettere i soldi che si raccolgono dai
risparmi anche per imprese sociali. Non solo per imprese cosiddette for profit.
Perché anche loro sono produttrici. Se voi intercettate questa nuova ondata, il
gioco è fatto. Perché poi, quando si ottiene un risultato, si genera il
cosiddetto effetto valanga: all’inizio la valanga è una palla di neve, che, scendendo
a valle raccoglie neve e diventa una grande valanga.
Chiudo con un pensiero che mi è sempre piaciuto.
E’ di S. Agostino. Sant’Agostino definisce la speranza come la virtù che ha due figli bellissimi: la figlia
bellissima si chiama, dice lui, rabbia, l’indignazione che si deve
provare quando si vede come vanno le cose attorno a noi; l’altro figlio si
chiama coraggio. Il coraggio di vedere come potrebbero andare
diversamente le cose solo se ci rimboccassimo un pochino le maniche.
A me è sempre piaciuta questa definizione di
speranza perché ci fa capire che la speranza non è la virtù di chi sta lì ad imprecare
o a lamentarsi, ad aspettare. Ma è la virtù di chi si arrabbia. Capite cosa
vuol dire arrabbiarsi, percepire la situazione di bisogno, che passa vicino, ma
soprattutto prendere il coraggio. Perché, mentre l’animale vive nel tempo ma
non ha il tempo, l’essere umano vive nel tempo e ha il tempo. Ed avere il tempo
vuol dire avere la possibilità concreta di usare il tempo.
Vi faccio veramente di cuore tanti cari auguri
per la vostra iniziativa. Non è facile raccogliere tante persone come stasera
per parlare di questi temi, neppure a Milano. Io devo dire così perché mia
moglie è milanese e devo dire che è superiore a un’altra. Poi dopo le dico: ma
si, tu sei padana. Lei dice: no, no, io preferisco essere bolognese piuttosto
che della regione padania.
Vi faccio veramente tanti auguri, perché voi
siete nelle condizioni storiche di potere fare questo, ed è un fatto. Molti
vengono ad aiutarvi, però dovete iniziare voi, perché nessuno potrà
paternalisticamente venire a fare qualcosa se voi non aprite la porta. Perché
la salvezza è una porta che si apre dall’intero non dall’esterno. Bisogna che
chi è dentro apra, poi se uno apre verso l’esterno la porta, state pur certi
che qualcosa arriva sempre. E’ sempre stato così nella storia, non vedo perché
non debba essere così ora. Tanti cari auguri e buon lavoro.
Stefano
Zamagni
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